Solo Poche Parole



Non e' che non volevo più amarti. Forse, alla fine, mi ero solo stancata di aspettarti.


Primavera.
I ciliegi in fiore. Come se avessi corso fino ad un attimo prima, ero senza fiato. Mi ero seduta un momento, stendendo le gambe in una pozza dorata di sole. Avevo gli occhi pieni di quello spettacolo di nuvole rosa. Non sentivo niente intorno a me.
Una canzoncina cantata sottovoce da una bambina mi aveva all'improvviso riportata alla realta'. L'orologio mi diceva che era passato solo qualche minuto. Ero comunque in ritardo, a quel punto valeva prendersela con comodo.
Arrivai al campo camminando piano, distratta. I ragazzi mi chiesero dove fossi stata, cosa avessi fatto. Risposi loro a monosillabi e iniziai il mio lavoro.
Fu come un lampo, quel pomeriggio. E arrivo' la sera e l'ora di tornare a casa. Mi attardavo in piccole faccende, immersa nel chiacchericcio allegro e rilassato che riempiva l'aria. Presto fui da sola. Entrai nello spogliatoio per raccogliere gli asciugamani da lavare e mi sorpresi. Non ero poi cosi' sola. Wakabayashi stava seduto su una panca, la testa fra le mani.
"Wakabayashi-kun?" domandai piano.
Alzo' la testa di scatto e fece una smorfia di dolore.
"Wakabayashi-kun" ripetei "tutto bene?".
"Manager Nakazawa" disse "come mai ancora qui? E' tardi…".
"Oh" risposi sorridendo "avevo delle cose da finire…non mi sono resa conto dell'ora…". Notai in quel momento che aveva una mano appoggiata alla tempia. "Tutto bene?" chiesi accennando alla testa.
"E' solo un mal di testa che mi sta facendo impazzire…"rispose in un sospiro. Cerco' di alzarsi ma, barcollando, si rimise a sedere.
"Come posso esserti d'aiuto? Posso chiamare qualcuno?" domandai preoccupata. Wakabayashi non era certo una persona debole. Se stava cosi', doveva essere qualcosa di veramente forte.
"No…", ma vedendo che ne ero rimasta male, aggiunse "No, grazie…devo solo arrivare a casa…".
"Ti posso accompagnare" dissi "se vuoi". Mi guardo' da dietro la visiera del suo cappello e non so perché quello sguardo mi fece arrossire. Sorrise in maniera quasi impercettibile.
"Manager Nakazawa" inizio' "pensi che il tuo corpicino sia abbastanza forte da sorreggermi?".
Era la seconda volta in un minuto che mi faceva arrossire. "Pero'" aggiunse quasi divertito "se vuoi ci possiamo provare…".
Mi misi a ridere. Stava male, a quanto potevo dire io, eppure riusciva a essere divertente.
Con qualche fatica ci avviammo, poco dopo, verso casa sua. Era una bella sera primaverile, come ce ne sono tante in quel periodo, del resto. Non parlammo di nulla, si limito' ad appoggiarsi a me leggermente. Io, sottovoce, cantavo quella canzoncina sentita nel parco. Ogni tanto alzavo lo sguardo per capire se gli dava fastidio o se stava male. Un paio di volte ci fermammo ad un muretto per riposarci un po'. Non che io fossi stanca, pero' era piacevole stare cosi', quindi allungare anche per poco quel momento mi faceva piacere.
Arrivati a casa sua, suonai per farci aiutare. Nell'attimo poco prima che arrivasse una domestica, si piego' leggermente su di me e sussurrò "Grazie mille, manager. Canti benissimo…".
Fu un attimo, una sensazione, ma ebbi l'impressione che le sue labbra sfiorassero la mia guancia. Arrossii per la terza volta. E, pensandoci, non saprei dire se per le parole, per la situazione o per il bacio immaginato. Era la sera prima del mio diciottesimo compleanno.


"Non ti scordare di me…quando i fiori di susino saranno caduti…non ti scordare di me…" cantavo quella mattina. Mi ero alzata con un umore particolarmente buono e una canzone in testa. Era sabato. O, dal mio punto di vista, il sabato del mio compleanno. Ero riuscita a organizzare tutto per una festa con gli amici, nella serata. Ne ero davvero felice. Passai quel giorno a scuola con la testa fra le nuvole, proiettata nell'immaginario di quello che sarebbe potuto succedere, chi sarebbe venuto, come sarebbe andato il tutto. Quel pomeriggio me ne andai dal campo prima del solito, mancavano poche ore alla festa e avevo ancora tanto, troppo da fare. Passai in rassegna tutto, controllando i particolari. Bagno, vestito, piccoli ritocchi ed ero pronta. Con il cuore che batteva a mille.
Velocemente arrivarono tutti, a breve distanza gli uni dagli altri, e presto c'erano musica, risate, chiacchere. Mi ero rilassata. Sorridevo, scherzavo, parlavo. I ragazzi della Nankatsu c'erano tutti. Tsubasa mi stava davanti, sorridente, porgendomi un pacchetto. Il loro regalo. Una maglietta della Nankatsu per me, con il mio nome, firmata da tutti. La dedica di Oozora l'avevo notata subito. <Alla migliore manager, sostenitrice, amica. Auguri! Tsubasa Oozora>. E' vero, sospirai su 'amica'. Poi un'altra attiro' la mia attenzione. Piccola, quasi nascosta. <Non ti scordare di me quando i fiori di susino saranno caduti. Genzo Wakabayashi>. Arrossii. Sorrisi. Cercai con gli occhi Wakabayashi e lo vidi parlare con degli amici. Rimandai l'intenzione di ringraziarlo ad un altro momento.
Il tempo scivolo' a ritmo delle canzoni che ascoltavamo e fu preso, troppo presto, ora per tutti di tornare a casa. Salutai gli amici e rimasta sola mi ricordai che dovevo parlare a Wakabayashi. Uscii di fretta, senza fare rumore per evitare di dare spiegazioni, e corsi fino alla sua casa. Solo quando mi trovai con il fiato corto davanti al suo cancello realizzai quello che avevo fatto. Mi trovavo nel pieno della notte, come una stupida, davanti a una villa solo perché dovevo ringraziare un amico. Sospirai e mi appoggiai alle sbarre di ferro. Lasciavo che un lontana brezza marina mi spettinasse i capelli e respiravo. Pensai che mi sarebbe piaciuto addormentarmi li. "Grazie Wakabayashi-kun" sussurrai dentro un sospiro. E mi rimisi sulla strada per tornare a casa. Qualcuno fischiettava quella canzone mentre si spegneva l'ultima candelina del mio compleanno.


"Oozora-kun!" dissi ridendo. Aveva piovuto, quella notte, io mi ero presa l'acqua e il campo si era riempito di pozzanghere. Tsubasa era scivolato dentro una di queste.
"Manager, mi dispiace, hai una divisa in più da lavare" disse sorridendo.
Parlavamo, al centro del campo, di piccole cose e grandi speranze, come se tutto si potesse decidere in quel momento e proprio da noi. Quei sorrisi e quegli sguardi mi riempivano.
Un attimo, un colpo di vento e starnutii.
"Manager Nakazawa non ti starai raffreddando?" chiese preoccupato Tsubasa.
"Devo aver preso un po' di freddo…"risposi tranquillamente.
"E un po' di acqua…" aggiunse una voce alle mie spalle.
Wakabayashi era dietro di me, non distante. Ad un tratto capii cosa vuol dire la parola "imbarazzata". Io ne ero l'espressione vivente.
"Acqua?" chiese incuriosito Tsubasa.
"Dicevo cosi' per dire…" rispose vago Genzo "Ma ora dobbiamo iniziare con gli allenamenti, giusto?".
"Vado a cambiarmi la divisa e arrivo!" disse con entusiasmo Tsubasa.
Feci qualche passo indietro, in una direzione scelta a caso, ma ideale visto che mi portava lontana da Wakabayashi. Mi fermai d'un tratto. Mi voltai e aprii la bocca per parlare. Ma lui già se ne stava andando fischiettando quella canzone. E io che volevo chiedergli se era lui la sera prima, ottenni una risposta senza dover fare alcuna domanda.


Mi sorprendo adesso accorgendomi di quanto velocemente passarono quei giorni. I tramonti rosati abbracciavano presto le giornate e l'avvicinarsi dell'estate era impercettibile ai miei occhi. Tutto d'un tratto, come se mi fossi svegliata da un sogno, mi trovai nel mezzo di un luglio afoso. Le cicale sembravano riempire l'aria silenziosa. Tra di noi solo poche parole.
Mi trovavo a riempire un secchio di acqua fredda e, persa com'ero nei miei pensieri, non mi resi conto che traboccava. Un'esclamazione, la sensazione del fresco sui miei piedi e sulle mie gambe, il caldo…tutto mi faceva venire voglia di ridere. Sorrideva, Tsubasa, guardandomi ferma in quel gioco. Ricordo quel sorriso. Non so spiegare il perché, ma forse non esiste, e lentamente mi avvicinai sorridendo. Non una parola. Solo un bacio su una guancia. I suoi occhi sorpresi, una mia risata sottile e la sua che si univa alla mia. Di quell'estate ho ricordi cosi', come istantanee scattate in momenti particolari.


Genzo Wakabayashi. Quell'autunno avrebbe cucito un filo rosso tra noi due, e io non me lo aspettavo. Ma prima dovrei parlare di Tsubasa Oozora. Sempre perso nel suo futuro, nel calcio, nella nazionale. Con lo sguardo forse troppo in la' per accorgersi degli orizzonti più vicini. Io che mi raccoglievo nelle mie speranze e illusioni, una realtà troppo conosciuta e facile per volerla cambiare. Infondo era cosi' semplice e cosi' sicuro quello che c'era. La verità, tutto sommato, direi che sta tutta in una parola. Paura.
Ma alle soglie di quell'autunno, tra le prime foglie rosse, c'era chi mi avrebbe fatto cambiare idea. E per la prima volta spostando il mio sguardo, non mi accorgevo che anche Tsubasa stava cambiando.
Di quel pomeriggio, e' strano, ma ho pochi ricordi. Fissi nella memoria la pioggia e il rosso del mio ombrello. Tutto il resto mi appare sfocato, un velo di tristezza che ricopre tutto. Genzo sotto la pioggia a fissare un pallone dimenticato nel campo. Le gocce di pioggia che sul suo viso sembravano lacrime. Che strana sensazione anche adesso. Sento la mia voce come se provenisse da lontano, come di ricordi bambini, invece non e' poi cosi' passato. Sorrideva e a vederlo cosi' il cuore prese un ritmo strano, nuovo. Un altro ricordo poco chiaro. Qualche perché, molti pensieri in un attimo e i suoi occhi. E le parole di allora.
"Nakazawa, come fai a capire il cuore?" mi chiese con calma. Non mi guardava, gli occhi ancora fissi sul pallone.
"Credo…non so…forse ascoltandolo".
"E come fai a sapere se sono messaggi giusti? I dubbi che ti vengono come fai a capire se sono fondati o meno?" riprese con più foga.
"Ah…io non so…ma penso siano cose che vengano da sole. Se domandi, prima o poi qualcuno o qualcosa ti risponde".
"Con Oozora e' cosi'?" .
Fui completamente spiazzata da questa domanda. Non mi aspettavo niente del genere da Genzo. "Wakabayashi-kun…che domanda e'?" fu l'unica risposta che riuscii ad articolare nell'imbarazzo di quel momento.
"Io non capisco" riprese lui "come puoi. Tsubasa non si rende conto di…" e interruppe la frase cosi', perdendosi nei suoi pensieri.
Non capivo molto in quel momento, confusa com'ero per l'imbarazzo e forse di più per l'emozione di qualcosa che non avevo sperato, ma che forse era stato solo accennato qualche tempo prima. "Neanch'io a volte capisco" dissi più che altro a me stessa. "A volte sembra tutto cosi' assurdo e difficile. Una perdita di tempo. Una corsa senza fine. Oozora-kun non si rende conto di tante cose…".
"Quello che dicevo io" mi disse, guardandomi per la prima volta da quando era iniziato quel discorso "e' che Tsubasa non si rende conto di cosa si lascia scivolare tra le dita. Perde i tuoi sorrisi, i tuoi sguardi, la tua voce, i tuoi gesti…perde te…".
Arrossii. Sentivo tutto il mio viso colorarsi di porpora. Gli occhi si riempivano di lacrime. Poche parole ma cosi' giuste. E lui se n'era accorto.
Vedo ancora l'ombrello che cade per terra nello stesso istante nel quale mi copro il viso con le mani. Un assurdo tentativo di nascondere un pianto cosi' evidente. Sento ancora le braccia di Genzo chiudersi intorno a me come a proteggermi…dai miei stessi sentimenti, forse.
Alzai il viso. I suoi occhi nei miei per un attimo. E poi la sua mano sul mio volto, il suo cosi' vicino, in punta di piedi per raggiungerlo, e il tiepido calore delle labbra. Il mio primo bacio.


Mattino presto. Forse erano le sei e mezza. Un giorno freddo, il cielo carico di nuvole ma l'aria cosi' leggera. Non che non avessi dormito, solo mi ero svegliata presto. Avvolta in una coperta osservavo il mondo fuori dalla finestra della mia camera. Da lontano, in mezzo alla foschia, intravedevo una figura che avanzava correndo. Scesi le scale di corsa, sperando di non fare troppo rumore. Ignorando il freddo, uscii di casa. Chissà perché, nonostante tutto, continuavo a comportarmi cosi' con Tsubasa.
"Buongiorno capitano".
"Manager! Buongiorno! Come mai fuori a quest'ora e con questo freddo?".
"Ah! Mi sono alzata poco fa e ti ho visto arrivare…ho pensato di salutarti…". Mi fermai a guardare le nuvolette di fumo che i nostri respiri creavano nell'aria gelida. Pensai in quel momento che a volte anche i pensieri sono cosi', come nuvolette, visibili e quasi palpabili.
Non riuscivo a guardare Tsubasa, non da cosi' vicino. Mi strinsi ancora di più nella coperta, il freddo mi aveva circondata.
"Ti sei svegliata presto…". La sua voce era arrivata all'improvviso. "Devi andare da qualche parte?".
"No, ho solo aperto gli occhi e non sono più riuscita a chiuderli" risposi trattenendo uno sbadiglio. Avevo sonno, tutto sommato. "Sei tu quello che tutte le mattine corre da qualche parte…".
"No, no" disse gesticolando "cerco solo di mettere in ordine pensieri un po' sparsi…tutto qui…e poi, certo, mi tengo in allenamento…".
"Pensieri sparsi?" chiesi incuriosita. "Che genere di pensieri?".
Mi guardo' dubbioso. "Pensieri su quello che faccio, su quello che vorrei, su come sono, su le persone…" fu la sua vaga risposta.
"E su le persone" incalzai io, poco soddisfatta, "cosa pensi?". Fissavo l'orlo della coperta che mi copriva.
"Cose strane, credo…" disse all'improvviso.
"Strane? Cosa di cosi' strano?" domandai alzando lo sguardo d'istinto. Incrociai i suoi occhi.
"Non pensi che sia strano come le persone a volte si rincorrano?" chiese, il viso rivolto in alto, verso il cielo.
"Penso…penso che sia naturale…" dissi riflettendo, colpita da quella frase. "Non sto dicendo che sia giusto, ma spesso si desidera quello che non si ha…rincorrere qualcosa più grande di te in qualche senso produce uno stimolo, da un senso…si spera che alla fine si raggiunga un risultato…e solo quando ti ritrovi senza fiato, capisci che stai perdendo qualcosa, una parte di te, forse…". Tutto d'un fiato mi era nata quella riflessione, cosi' limpida che probabilmente la tenevo dentro da tempo. E quella mattina, dove il tempo sembrava essersi fermato, era finalmente uscita a parole e nuvolette di respiri. O sospiri.
"Tu…stai perdendo qualcosa?" mi chiese Tsubasa.
Alzai gli occhi. Guardandolo, per la prima volta credo non capii cosa provassi. "Io… non so…". Rabbrividii.
"Forse e' meglio che rientri, stai prendendo freddo…" disse gentilmente.
"Forse…" sussurrai. Sorrisi. Un piccolo cenno con la mano. E corsi dentro, chiudendomi la porta alle spalle. Sospirai.


Correvo. Correvo e maledicevo le pulizie della classe, quel pomeriggio. Stavo facendo tardi e se non mi fossi affrettata non sarei mai arrivata in tempo. Poi perché quando sei in ritardo c'e' sempre qualcosa che ti rallenta ancora di più e' un mistero. Dovevo arrivare al campo entro pochi minuti e mi trovavo ancora in classe. Presi la cartella e mi misi a correre per i corridoi della scuola, completamente noncurante delle regole a proposito. Uscii ancora di corsa dall'edificio, girai l'angolo e finii violentemente per terra. Perfetto.
Alzai gli occhi. Wakabayashi, a terra pure lui.
"Scusami…oddio…ti sei fatto male?" chiesi persa tra confusione, imbarazzo e non so cos'altro.
"Tu ti sei fatta male…" rispose indicandomi il ginocchio.
Usciva del sangue. La caduta sul cemento del cortile non mi aveva fatto bene. Sospirai. Sembrava quasi che ultimamente non fossi capace di fare altro. Sospirare, intendo. E incontrare Genzo in situazioni strane.
"Dai, vieni su" disse porgendomi una mano.
Mi alzai facendomi aiutare e ci avviammo a una fontanella vicina. Presi un fazzoletto, lo bagnai e ne feci un rimedio di emergenza. Wakabayashi si era seduto accanto a me. Credo fissasse il mio ginocchio. O il fazzoletto. O la mano. O non so. Io, poi, non sapevo che dire, che fare, se dovevo parlare o forse era meglio di no…respirai. Mi misi a fissare le punte delle mie scarpe.
"Ti fa molto male?" domando' all'improvviso.
"Brucia…ma solo un po'…non basta questo a eliminarmi…" risposi sorridendo. "Credo di avere un talento naturale per certe cose…".
"Quali cose? Farti male?".
"Anche, ma non solo".
"E in cos'altro saresti tanto brava?".
"Per esempio" dissi continuando a sorridere "a mettermi in situazioni imbarazzanti…".
Rise. Si alzo', si mise di fronte a me e mi punto' un dito sulla fronte. "Sara' perché" disse "sai di essere estremamente carina quando sei imbarazzata". E ridendo dolcemente si diresse al campo. Lasciandomi sola con il mio imbarazzo, lo stupore, se ne andava abbassandosi la visiera del suo cappellino, nascondendo poi chissà cosa. E ancora quello strano battito del cuore.


Dal bordo del campo, lasciando i miei doveri per un attimo, lo osservavo. Teso, piegato sulle ginocchia, pronto. Quando era in campo non esisteva niente al di fuori del pallone e dei giocatori. Incredibile per me, che mi distraevo in continuazione e sorridevo per quasi tutto. La mia attenzione passo' su Tsubasa. Sorrideva. Felice semplicemente di fare quello che stava facendo: correre dietro ad un pallone. Ripresi a muovermi, stavo sentendo freddo. E poi si faceva buio troppo presto e tornare a casa cosi' non mi piaceva affatto. Cercai di sbrigarmi ma era una corsa contro il sole che sembrava andare molto più veloce di me. Non era tanto tardi quando finii, eppure si vedevano già le prime stelle. Respirai l'aria gelida che proveniva dal campo da calcio vuoto. Mi fece rabbrividire, pero' aveva un buon profumo. Mi aspettava un ritorno a casa lento, con il ginocchio che nonostante tutto mi faceva male.
Avevo da poco lasciato la scuola, con la luce dei lampioni, per strada, che mi avvolgeva. Tsubasa mi stava davanti. Sembrava si fosse fermato ad allacciarsi una scarpa. Ci salutammo; poche altre parole e mi chiese se volevo che mi accompagnasse a casa. Parlavo raramente, più che altro lo ascoltavo nei suoi discorsi su gli allenamenti, le prossime partite, quali avversari, quali tattiche…annuivo con il capo alle sue spiegazioni. Osservavo il viso serio regalarmi piccole espressioni. Le mani enfatizzare parole. Guardavo e sorridevo. Mi ero ricordata perché Tsubasa mi piaceva cosi' tanto. In quel momento arrivammo a casa mia.
"Strano" fu quello che pensai quella sera. Come avevo ritrovato quel "qualcosa" mi ero dovuta separare da lui. Sembrava che un vetro si stendesse tra noi due. Se cercavo di avvicinarmi, rischiavo di rompere tutto. Quindi conveniva restare alla solita distanza. O forse vicinanza, chi lo sa. I vapori di un bagno molto caldo confondevano tutto, anche i miei pensieri. Ma, in definitiva, era solo una fragile giustificazione, perché le mie idee non erano mai state troppo chiare. Soprattutto con Tsubasa. Mi accorsi che stavo osservando le mie mani. Con quelle, pensai, avevo accarezzato il viso di Genzo in quel strano, dolcissimo bacio. Il vapore, quindi, non si era limitato a entrarmi in testa, ma era arrivato fino al cuore.


"Un'altra volta…" sospirai esasperata. I capelli, ormai lunghi, mi erano scivolati fastidiosamente davanti e nel tentativo di spostarli mi era caduto per l'ennesima volta il cesto con le magliette da lavare. "Dovrei decidermi a tagliarli!" dissi a me stessa, irritata. Alzai lo sguardo. Genzo mi guardava. Arrossii. Aveva un meraviglioso talento naturale nel farmi sentire in imbarazzo. Si porto' due dita alla visiera, l'altra mano appoggiata alla nuca, e si sistemo' il cappellino. Senza dire niente, si volto' dall'altra parte sorridendo. Sorrisi anch'io. Buffo Wakabayashi che credeva bastasse un cappello a nascondere le emozioni. Risi sottovoce. Evidentemente non abbastanza, perché si avvicino' a me incuriosito.
"Non fare finta di niente, si vede benissimo che stai ridendo…" inizio' con un tono a meta' tra il divertito e il sospettoso. "Sono io che ti faccio ridere forse?".
"No, no" mi affrettai a rispondere, poco convinta.
"Non mentire…" continuo' fingendosi minaccioso.
"Toglimi una curiosità, allora" decisi di chiedergli "ma perché porti sempre il cappello?".
"Eh? Ma ridevi per questo?" domando' incredulo. "Perché mi protegge dal sole, comunque".
"Wakabayashi-kun" dissi sorridendo maliziosa "oggi non c'e' un sole cosi' splendente…".
Sembrava essersi imbarazzato, tutto d'un tratto. "Ma se piove…" comincio' poco convincente.
Lo bloccai immediatamente. "Non vedo nuvole da pioggia…".
"Non si sa mai. E comunque mi protegge" rispose secco.
Risi. "Certo, Genzo, ti protegge da te stesso…". Presto soffocai il mio riso. Mi stava guardando stupito. "Cosa c'e'?" domandai con un velo di preoccupazione. Forse avevo esagerato.
"Mi hai chiamato per nome…" disse lentamente.
Arrossii. Non me ne ero resa conto. Semplicemente, mi era uscito naturale. "Scusami, non so che dire…io…oddio, scusa, non volevo…" balbettai imbarazzata.
Mi osservo' per qualche istante. "Nessun problema…chiamami pure Genzo, se ti va…". Questa volta fu il mio lo sguardo stupito. "E comunque" aggiunse levandosi il cappello "questo non mi protegge da me stesso…", era leggermente arrossito, "e forse torna più comodo a te, per i tuoi capelli…" concluse timidamente, porgendomelo.
Rimasi ferma. Non ero indecisa, ero solo felice. Cosi' felice d'aver paura di muovermi perché non svanisse quella che ritenevo solo una fantasia. Lentamente allungai la mano. Raccolsi i capelli e li sistemai nel cappello. Il profumo di Genzo.


Altra serata, un'altra giornata di scuola finita, il solito rientro a casa. Chissà perché, da un po' avevo preso l'abitudine di fermarmi un attimo a osservare il campo da calcio vuoto. Nelle mani stringevo la cartella e il cappello di Wakabayashi. Mi affrettai sulla via del ritorno, quella sera ero davvero sola. I ragazzi erano partiti per un ritiro e li avrei rivisti solo alla partita che li aspettava.
A casa, occupata a preparare gli esami ormai vicini, ricevetti una telefonata. Dall'altra parte del telefono Oozora. Indeciso, forse, ma imbarazzato di sicuro, mi aveva chiamata per sapere se ero tornata senza problemi. Scambiammo qualche frase, notizie su come stavano procedendo le cose, di come stavano gli altri; parole normali. Piccole battute di un copione ben conosciuto. Eppure, ripensandoci, c'era qualcosa. Un tono, una parola, una pausa. Qualcosa era cambiato. Non sapevo ancora se in meglio o in peggio.


Partita. Il campo da calcio. Il cielo coperto, forse avrebbe piovuto o forse no. Nell'aria il brusio della gente in attesa di vedere un bel match. Emozione. Incredibile come fosse sempre cosi', come si riuscisse a creare sempre quello stato d'animo e l'aria cosi' carica di aspettative. Non ho mai capito se erano i giocatori a trasmetterci quelle emozioni o forse noi a darle a loro. Io giravo tra gli spalti in cerca di un posto, i capelli raccolti nel cappello di Genzo. Seguii la partita con la solita attenzione e un po' di occhio critico acquisito negli anni di vicinanza alla squadra. Anche quella volta uscii soddisfatta dalla partita che avevo visto.
Aspettavo sempre i ragazzi per complimentarmi con loro e, davvero, non era solo una scusa per vedere Tsubasa. Non più. Stavano già salendo sul loro pullman, ma trovai ancora Oozora che si era attardato a parlare con dei ragazzi. Parlai un po' con lui. Salutai i ragazzi con un cenno di mano e una "v" di vittoria. Tra i primi posti era seduto Wakabayashi. Portai una mano al cappello e sorrisi. Scese dal pullman mentre Oozora saliva.
"Ti sta bene" disse indicando il berretto.
"Si? Mi piace molto…".
"Bene".
Silenzio. Tossii.
"Ma…" iniziai. Infondo dovevo chiederglielo. "Vuoi che te lo restituisca?".
Mi guardo' sorpreso. "Certo che no! E' tuo, ora".
"Grazie. Meno male…" dissi in un sospiro "…mi sarebbe dispiaciuto…".
"Ridarmelo?".
"Beh, si…ha un buon profumo" risposi quasi sottovoce, portando le mani al cappello. Chiusi gli occhi per un attimo. E poi guardai Genzo. Era arrossito un poco. "Non…forse non dovevo dirlo…" aggiunsi un po' imbarazzata, rendendomi conto di quello che mi era uscito. Wakabayashi sorrideva, pero'. Sorrisi anch'io. Nessuno di noi due si era accorto che Tsubasa ci stava guardando. Le nuvole in cielo, poi si stavano allontanando.


"Io…". Pausa. "Io…mi sono innamorata di te…vorrei che leggessi questa…". Una lettera in mano.
Silenzio. "…sul serio?". Non riuscivo a vedere il suo viso.
"Prendila, ti prego". La lettera messa tra le mani di Genzo. Correre via. Quella ragazza, forse di prima, stava letteralmente scappando. Chissà, forse dal suo imbarazzo. Io ero finita a osservare quella scena per caso. Stavo andando verso il cortile della scuola, e mi ero ritrovata in quell'attimo. Girai l'angolo. Wakabayashi si volto' di scatto. Non cerco' neanche di nascondere la busta, si limito' a guardarmi interrogativo.
"E' carina…" ammisi.
"E' vero…". Un tono incolore.
"Ti piace?".
Si porto' le dita alla testa, cercando di abbassare la visiera di un cappellino che non aveva più.
"Guarda" dissi ridendo "che se vuoi te lo presto per situazioni come questa…" e tirai fuori dalla cartella il suo berretto.
Mi guardo' fingendosi arrabbiato. "Ti ho già spiegato…" inizio'.
"…che non ti serve per proteggerti da te stesso…certo, Genzo, certo…" conclusi, appoggiandogli una mano sulla spalla e fingendo completo appoggio e comprensione.
"Quanto sei…" disse, ma si fermo' cosi'.
"Cosa?" chiesi fingendo un tono di totale ingenuità.
Ridemmo. I nostri sguardi si incontrarono.
"Ti piace?" domandai di nuovo. Seria, leggermente ansiosa e tesa di avere una risposta. Continuavamo a guardarci.
"No".
Volevo fermare quell'istante. Assaporare le sensazioni di allora, fermarmi nei suoi occhi ancora un po'. Mi si dipinse un sorriso, appena accennato, sul volto.
"Wakabayashi-kun…".
"Dimmi".
"Mi piaci".
Iniziava a nevicare. Mancavano pochi giorni a Natale.


Vigilia di Natale. Intrecciavo gli ultimi fili di una sciarpa di lana insieme a pensieri e sentimenti differenti. Mi piaci. Fosse bastato quello. Ma c'erano tante altre parole d'aggiungere. Mi piaci non era sufficiente. E avevo detto i perché, i come, i ma, i se. Parlavo di dubbi e emozioni forti, ricordi cristallizzati e le speranze che, ad ogni modo, mi resistevano nel cuore. E Genzo mi aveva ascoltata, silenzioso e serio. Erano cose che dovevo dire, che doveva sapere. Perché "mi piaci" non era tutto.
Avevo finito la sciarpa. La guardai, un'ultima volta, prima di chiuderla in un pacchetto. Era anche ora che uscissi a portare i regali di Natale che avevo fatto. Raccolta in un cappotto, mi avviai in quella serata già natalizia, sotto leggeri fiocchi di neve. Chissà poi come, mi sentivo leggera anch'io.
Il freddo piacevole di quel giorno sembrava fissare nel tempo istanti e parole. E nell'attimo in cui li ricordavo, entravano chiari nel mio cuore.

"Io…".
"Cosa?".
"…credo di amare una persona…".
"…ah…".
"E' eccezionale, sai? Sa essere forte ma anche dolce…mi sorride e mi aiuta…e' accanto a me quando ho bisogno…sembra capirmi cosi' bene…".
"…davvero? Dev'essere proprio una persona speciale…".
"Già…vedi, quella persona se…".
"No. Non dirlo…".
"Perché?".
"Ho paura…".
"…di quelle parole?".
"…di quei sentimenti, Tsubasa".


"…nevica…che bel Natale…".
"Non hai freddo?".
"No…".
"…ti piace la sciarpa?".
"…si…mi ricorda te…".
"…stai sorridendo".
"Si, ma…rideresti se ti dicessi perché…".
"Provaci e io vedrò di non ridere".
"E mi dovrei fidare?".
"Certo che si".
"…sorrido perché ci sei tu…beh, cos'e' quell'espressione?".
"…sono felice…".
"Anch'io".
"Genzo?".
"Dimmi".
"Mi vuoi bene?".
"Ma che domanda e'?".
"Dimmelo".
"…si…ti voglio bene".


Passi brevi, stretta in un kimono dai colori delicati, camminavo piano. Respiravo l'aria di quel nuovo anno che incominciava. Il freddo arrossiva leggermente le mie guance. Non avrei cambiato nulla di quella mattina.
Passai dal tempio, accesi dell'incenso e pregai. Poco dopo ero nell'allegro rumore che circondava quelle vie piene di bancarelle e persone. Voci, colori, profumi. Mi fermai davanti ad un piccolo spiazzo che, dall'alto, si affacciava su tutta la città. In una mano raccoglievo la piccola Fujisawa.
Una voce, all'improvviso, alle mie spalle.
"Nakazawa…".
"Oozora-kun, anche tu qui?". Ero sorpresa. Non che non avessi pensato che non l'avrei potuto incontrare. Mi emozionavo comunque. O nonostante tutto.
"Il kimono…ti dona…".
"Grazie…". Ero arrossita.
Riprendendo a camminare senza una meta precisa, superato il primo imbarazzo, parlavamo tranquillamente. Stranamente, poi, quella volta non di calcio. Chiedeva cose e rideva, gli occhi che mi sfioravano appena, quasi timorosi di essere scoperti a fissarmi. Mi rimanevano dentro quei sorrisi, portando a chiedermi se certe cose avevano ancora modo di cambiare. E un cielo sereno sopra di me non voleva rispondermi. Infondo, che dire, io volevo solo capire da che parte girarmi sorridendo e trovare un altro sorriso di risposta. Riuscire a comprendere un cuore che batteva sempre troppo forte.
"Oozora-kun…".
"Si?". Si era voltato verso di me.
"Le parole dell'altra sera…io vorrei…puoi dirmele?".
"Avevi…paura…".
"Non mi e' passata". Sorridevo. Chissà perché.
"…sei sicura?".
"Io…devo capire…".
"E' diventato cosi' importante?". C'era quasi rabbia nella sua voce. "Genzo…e' diventato cosi'…". Si blocco'.
Il mio sguardo su di lui. "Io…non…devo capire…tutto questo tempo e poi lui…".
"Mi piaci, Nakazawa". La tristezza nei suoi occhi. "Mi piaci".
Senza saper dare una ragione, mi misi a piangere. Forse era solo l'essermi resa conto che con quelle parole si rompeva qualcosa e scivolava via. Qualcosa sfuggiva tra le mani e la consapevolezza mi rendeva irrimediabilmente triste in quell'attimo. Certe sicurezze s'infrangevano in due parole che magari, alla fine, non volevo sentire. Era paura. Ma ora che quel vetro era stato superato cosa mi aspettava?
All'improvviso, il suo abbraccio. Quel momento l'avevo già vissuto, ma il calore di allora era quello di Wakabayashi. Il nuovo anno iniziava cosi'.


L'estate e' tornata anche quest'anno. Dalla mia finestra entra il rumore delle cicale. Il vento profuma di mare. I ricordi nella mia testa come vecchie fotografie un po' sbiadite. Sorrido, ancora una volta senza una ragione precisa. Ci sarebbero tanti motivi. Mi guardo allo specchio. Io, con i capelli un po' più lunghi. Io, in un vestito estivo. Io, con le labbra velate di lucida labbra. Io. Allungo le gambe nel riquadro di sole che la finestra lascia entrare nella mia camera. Guardo fuori e un cielo sereno mi osserva. Alzarmi e uscire e' quello che ho voglia di fare. Un attimo solo e sono già fuori. I miei passi fanno un rumore piacevole nel primo pomeriggio estivo.
Senza neanche farci caso mi sono ritrovata al campo da calcio. Qualche bambino sta giocando. E' naturale, poi, che mi venga in mente di quando io ero cosi'. Non che ci sia nostalgia. Penso a come cambiano le cose. E a come certe, del resto, rimangano identiche. Ci sono attimi che sembrano cristallizzarsi nel tempo e ripetersi in continuazione. E per il resto della tua vita le ritroverai, le stesse. E' un 'idea che mi piace.
Da non molto lontano l'ho visto arrivare. Quella camminata ormai familiare, il suo sorriso accennato, leggermente timido, i suoi occhi quasi sorpresi di trovarmi davvero li'. Sorrido anch'io.
"…qui?".
Rido appena. "Si, ti avevo chiesto di trovarci qui".
Tossisce un po', forse nasconde dell'imbarazzo. "Ci siamo trovati qui già una volta".
"Non proprio qui, un po' più giù…". Il mio braccio si allunga, ad indicare un punto nel campo da calcio. "Più o meno li'…".
"Eri cosi' piccola…".
"Anche tu".
Distoglie lo sguardo dal campo e mi fissa.
"Cosa c'e'?".
"…stavo pensando all'altra sera…".
"Quando ci siamo baciati?" chiedo fingendo ingenuità'. Mi piace vederlo imbarazzato. E, infatti, arrossisce.
"No, non quello…" risponde cercando di sembrare infastidito per nascondere la timidezza. "Ma a cosa ci siamo detti…".
Silenzio.
Respiro profondamente. "Ti ho detto quello che sentivo…cose che dovevi sapere".
"…questo cambia tante cose…quello che c'e' stato finora…cambia anche quello…". Aveva smesso di guardarmi.
"Lo so".
"E sei sicura?".
"Ci sono cose che non cambiano. Altre che devono cambiare…certo che sono sicura".
"Perché?".
Il frinire delle cicale riempie l'aria. "Perché sono innamorata di te".
I suoi occhi di nuovo su di me. "…non me lo avevi detto l'altra sera…".
"Neanche tu …". Sorrido.
"Io…".
Con un dito sulle labbra, velocemente, lo fermo. "Andiamo?".
"…va bene".
Camminiamo lentamente, uno accanto all'altra. Sottovoce canto una vecchia canzone.
"Sciocca".
Mi fermo. "Perché?".
"Perché non capisci nulla".
"Cos'e', una dichiarazione d'amore?" rispondo ridendo.
"Ti amo".
Questo non me lo aspettavo. Forse per la prima volta non so che dire. Ma comunque non ne avrei modo. Mi bacia. Appoggio la testa sulla sua spalla. Non voglio che si allontani.
"Strano" dico "eppure…".
"Cosa?". Mi osserva. Le sue braccia intorno alla mia vita.
"Eppure non hai un cappello dietro al quale nasconderti…". Genzo mi guarda fingendosi offeso e arrabbiato. Rido. "Scherzavo…".
Mi alzo sulle punte dei piedi. Un attimo prima un sussurro, un attimo dopo un bacio. "Ti amo anch'io…".

fine